Un team di scienziati del MIT e dell’Università di Harvard guidati dal professor James J. Collins sta sviluppando il progetto di una mascherina in grado di segnalare la presenza del Coronavirus. La tecnologia in fase di realizzazione produrrebbe un segnale fluorescente in caso di rilevazione del virus nelle particelle di saliva di chi la indossa.
I sensori oggetto della sperimentazione furono elaborati per la prima volta nel 2014 per identificare l’Ebola e modificati nel 2016 per far fronte all’emergenza generata dal virus Zika. Inizialmente testati su carta, possono essere applicati anche a materiali quali tessuti, plastica e quarzo e sono composti da materiale genetico in grado di legarsi al virus.
Tale materiale viene liofilizzato sul tessuto con una macchina che ne aspira l’umidità, ma non ne altera le caratteristiche. I sensori si attivano alla presenza di due fattori: l’umidità prodotta dal corpo umano attraverso la respirazione e il rilevamento del virus. È sufficiente l’identificazione di una piccola sequenza del Covid-19 affinché la minaccia venga individuata: dopo 1-3 ore viene emesso un segnale fluorescente, misurabile attraverso un fluorimetro.
Lo strumento potrebbe rivelarsi un alleato economico e strategico nella battaglia di identificazione del Coronavirus sia in ambito medico, dove le rilevazioni sono rallentata dalle complesse dinamiche di reperimento dei materiali necessari e dalle tempistiche dei laboratori, che per sopperire ai limiti di efficienza dei controlli di sicurezza nei luoghi pubblici quali gli aeroporti.
Il team di Collins sta testando la capacità dei sensori di rilevare il Covid-19 e valutando se integrarli direttamente alle maschere o se predisporre un modulo di collegamento adattabile a qualsiasi tipo di dispositivo di protezione già esistente. Se tutto andrà come ipotizzato dal gruppo di lavoro, la produzione per la distribuzione delle mascherine potrebbe iniziare entro l’estate.