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Da Zurigo, un laminato fluorescente, ma solo in caso di deformazioni

La ricerca e la messa a punto di nuovi materiali, si scontra inesorabilmente con la poca conoscenza delle loro debolezze. L’individuazione precoce di queste ultime, è fondamentale per passare ad una applicazione non solo teorica ed alla conseguente implementazione pratica. 

In questa direzione, i ricercatori del Complex Materials Group dell’ETH di Zurigo, in collaborazione con l’Università di Friburgo, hanno sintetizzato un laminato estremamente leggero e robusto. Una caratteristica però lo differenzia dagli altri: la capacità di diventare fluorescente in caso di deformazione.

Scopo della ricerca, era infatti quello di trovare un indicatore di vulnerabilità, una nuova metodologia di rilevazione capace di suggerire eventuali criticità, anche strutturali, in un nuovo materiale composito. 

Nello specifico, il nuovo laminato è composto da un’alternanza di strati: alcuni, creati sull’esempio biologico del guscio di cozza, sono formati da innumerevoli lastre di vetro disposte in parallelo, compattate, sintetizzate e solidificate grazie ad una particolare resina polimerica, creando così una sorta di madreperla artificiale, estremamente dura e resistente agli urti. 

Altri, invece, sono costituiti da un polimero al quale i ricercatori hanno aggiunto una molecola indicatrice sintetizzata ad hoc; molecola che si attiva ed aumenta di fluorescenza nel momento in cui il polimero subisce uno stiramento. 

Secondo Tommaso Magrini, autore principale dello studio pubblicato sulla rivista “Applied materials and interfaces”, le molecole fluorescenti sono state scelte “per allontanarsi da una possibile interpretazione soggettiva”. I ricercatori potevano infatti predisporre un semplice viraggio di colore, ma il loro intento era trovare un indicatore non opinabile, in linea con qualsiasi altro segnale d’allarme. 

Questo laminato, ipoteticamente potrebbe trovare applicazione nella fabbricazione di aerei o veicoli, come negli elementi portanti degli edifici: rilevare qui una debolezza, potrebbe anche significare prevenire una catastrofe. 

 

Per approfondire:

Magrini T., Kiebala D., Grimm D., Nelson A., Schrettl S., Bouville F., Weder C., Studart A.R. (2021) Tough Bioinspired Composites That Self-​Report Damage, ACS Appl. Mater. Interfaces 2021, 13, 23, 7481–27490. DOI: 10.1021/acsami.1c05964

Per la sicurezza sul lavoro arriva Smart Jacket

Abbiamo in un precedente articolo parlato del Progetto TRAME che mira a perseguire l’obiettivo dell’aumento della sostenibilità ambientale, energetica ed economica della filiera tessile tramite una riorganizzazione dei flussi produttivi tra i vari stakeholder introducendo la tecnologia blockchain.

TRAME, come a suo tempo evidenziato, risulta oggetto di un finanziamento da parte di Regione Lombardia che mediante il bando Fashiontech ha messo a disposizione poco meno di 10 milioni di euro per la realizzazione di progetti di ricerca industriale e sviluppo sperimentale per la sostenibilità ambientale (ma anche etica e sociale) del settore del Tessile e della Moda.

Tra gli aggiudicatari, e quindi in corso di realizzazione, rientra anche Smart Jacket, un gilet innovativo che mira alla prevenzione degli infortuni sul lavoro. Un tema delicato quest’ultimo, che anche nei recenti mesi ha registrato drammatici dati: basta pensare che tra gennaio e maggio dell’anno in corso, si sono verificati ben oltre 400 infortuni mortali, per una media di poco inferiore ai 3 decessi sul lavoro al giorno (2,9 per l’esattezza).

Impresa capofila è Allix S.r.l. di Busto Arsizio, impresa specializzata in IoT e Industria 4.0. Partner sono poi ACM Solution S.r.l. di Busto Arsizio e PCA Technologies S.r.l. di Pogliano Milanese.

Il Progetto, come accennato, prevede la realizzazione di un dispositivo di protezione sul lavoro che non va a sostituire i DPI già esistenti quanto piuttosto ad aggiungersi ad essi per ottenere un livello molto più elevato di sicurezza. Il gilet si presenta come un giubbotto ad alta visibilità, ma è al suo interno dotato di sensori in grado di analizzare i movimenti del lavoratore, di apprenderli e di andare via via a prevedere eventuali cadute mettendo al sicuro il dipendente, dapprima avvisandolo con un allarme e successivamente attivando un airbag incorporato.

Dotare i dipendenti di uno Smart Jacket significherebbe evitare incidenti sia di minor gravità, che comunque possono comportare l’impossibilità a svolgere il proprio lavoro per alcuni giorni, sia di gravità elevata in cui i sinistri possono provocare un’invalidità permanente o, addirittura, la morte. […] Con lo Smart Jacket il datore di lavoro offre una maggiore tutela risparmiando allo stesso tempo in risorse umane e in interventi esterni, fornendo una sicurezza incrementata, costante e facilitata.

Queste le parole di Ivan Allevi, CEO di Allix S.r.l.

Dotato di una unità centrale di controllo e di sensori inerziali integrati, è in grado mediante un algoritmo di rilevare ed anticipare la caduta ancor prima che si verifichi l’impatto. Non solo: esaminando e andando ad analizzare il comportamento del dipendente riesce a rielaborare informazioni utili per lo studio degli errori più comunemente commessi in modo tale da andare via via prevenendo l’infortunio e rendendo più sicura l’intera giornata lavorativa.

Adatto per il settore delle costruzioni, dei trasporti e della manutenzione di edifici, prevediamo potrà in realtà andare ad inserirsi nei più differenti ambiti.

Algoritmi e magneti insieme per gli arti protesici del futuro

High Herr e Cameron Taylor, sono due degli autori principali dello studio pubblicato il 18 agosto 2021 su Science Robotics, intitolato “Magnetomicrometry”. L’idea che ha plasmato la strada percorsa dai ricercatori, è relativamente semplice: inserire piccole sfere magnetiche all’interno del tessuto muscolare di un arto amputato, misurare quanto e come si contrae il suddetto muscolo, trasmettere questo feedback alla protesi, così che questa possa “comportarsi il più naturalmente possibile” – il tutto, in qualche millisecondo. 

Ad oggi, la maggior parte di questi arti protesici vengono controllati mediante degli elettrodi posizionati sulla superficie cutanea o impiantati chirurgicamente nel muscolo: in ogni caso questo approccio, chiamato elettromiografia o EMG, fornisce informazioni legate esclusivamente all’attività elettrica nel muscolo. 

Quando usi il controllo basato sull’EMG, stai guardando un segnale intermedio. Stai vedendo cosa il cervello sta dicendo al muscolo di fare, ma non cosa effettivamente sta facendo

sottolinea Cameron Taylor, postdoc al Massachusetts Institute of Technology.

Da ciò, l’idea di inserire nei muscoli coppie di magneti per ricavare fondamentali informazioni, elaborate in base alle contrazioni registrate, alla loro velocità, alla mutata posizione di una sfera rispetto alla seconda della coppia. Tutte queste misurazioni, registrate da sensori esterni – collocati in prossimità dei magneti, anche sui vestiti – potrebbero essere inserite in un modello computerizzato e matematico dell’intera articolazione, capace di prevedere il movimento dell’arto fantasma nel paziente, nel tempo e nello spazio. 

Uno dei principali ostacoli all’utilizzo della magnetomicrometria negli scorsi anni, era il “lungo” lasso di tempo che intercorreva per queste misurazioni, impattando di conseguenza sul movimento – e sulla velocità di reazione – della protesi. Questa problematica è stata risolta grazie ad Herr e Taylor, i quali hanno sviluppato un algoritmo che ha notevolmente ridotto la quantità di tempo necessaria ai sensori per determinare in tempo reale la posizione dei piccoli magneti. 

La ricerca è stata finanziata dal MIT Media Lab, dalla Salah Foundation, dal National Institutes of Health e dalla National Science Foundation. Questo nuovo approccio è stato testato sugli animali, dimostrandone la rapidità ed accuratezza di misurazione, l’elevata qualità del segnale, la minima invasività dell’approccio.

Nei prossimi anni, il team di lavoro spera di poter applicare sperimentalmente la magnetomicrometria ad alcuni pazienti che presentano amputazioni sotto al ginocchio. 

TextileSense: i sensori NFC sono integrati nei tessuti

Siamo ormai abituati, anche inconsapevolmente, ad avere a che fare con sensori di ogni tipo. I più utilizzati sono senza dubbio i sensori NFC (Near-Field Comunication), grazie ai quali possiamo comunicare facilmente e velocemente con differenti tipi di oggetti.

Interessante è osservare quanto questa tecnologia divenga sempre più integrata in prodotti di uso comune e quotidiano. Questo è l’obiettivo principale che ha dato slancio al Progetto avviato dalla Carnegie Mellon University.

Il team di ricerca afferente al Laboratorio per le tecnologie wireless emergenti (WiTech) ha sviluppato delle antenne NFC in grado di poter essere integrate all’interno di tessuti: diventa così possibile provare ad immaginarci quindi un sensore integrato sulla superficie di un divano, di un letto o in un cuscino.

Alzare il volume della TV accarezzando il cuscino di un divano, cambiare canale dandogli un piccolo colpetto: si chiama TextileSense e ha la capacità di percepire anche la posizione della persona, ovvero ad esempio se si trova supina o seduta sul divano.

Abbiamo raggiunto questo obiettivo utilizzando più antenne a bobina flessibili NFC adatte ad essere incorporate in superfici ordinarie e di forma irregolare, come mobili e tappeti, con cui interagiamo in ambienti intelligenti

afferma Swarun Kumar, Professore Associato di Ingegneria Elettrica.

TextileSense può essere facilmente intrecciato all’interno dei tessuti e non risulta visibile grazie ad un rivestimento in acrilico.

 

Per approfondire:
Wang, J., Zhang, J., Li, K., Pan, C., Majidi, C., Kumar, S., Locating Everyday Objects using NFC Textiles, https://dl.acm.org/doi/pdf/10.1145/3412382.3458254

SeeBreathe: Mascherine stampate 3D, ecocompatibili

Abbiamo in un precedente articolo parlato di un interessantissimo prodotto partecipante al James Dyson Award e vincitore dell’edizione 2020.

Attualmente chiuse le selezioni per il 2021 e avviata la fase di valutazione, il 25 agosto verranno annunciati i finalisti e i vincitori. Sono diversi gli affascinanti prodotti candidati al riconoscimento la cui partecipazione è aperta agli studenti universitari o ai neo-laureati delle facoltà di ingegneria, product design o industrial design. Giovani inventori che propongono idee davvero interessanti e che, ci auspichiamo, servano loro da trampolino verso una vita professionale densa di soddisfazioni.

Ci soffermeremo più avanti sul futuro vincitore, ma nel frattempo vogliamo condividere un’idea candidata che abbiamo apprezzato molto. Non solo per l’interesse che nutriamo per la tecnologia utilizzata per realizzarla ma anche per la rilevanza che la sostenibilità ambientale ha nella creazione del prodotto stesso, oltre agli inaspettati risvolti nell’interazione fra le persone.

Stiamo parlando di Seebreathe: una mascherina N95 che promette una lunga durata, un basso costo, un ridotto impatto ambientale ed anche risvolti sociali non trascurabili.

Un’immagine con una didascalia di Three-dimensional CAD model of mask components for 3D printing

Stampata in 3D utilizzando come consumabile un polimero biodegradabile che la rende eco sostenibile, è attualmente solo un prototipo, ma ci auspichiamo divenga realtà. Non solo per il bene dell’ambiente considerando che dovremo probabilmente e purtroppo utilizzare dispositivi di protezione individuale ancora un po’, ma anche perché essendo stampabile in breve tempo, può essere prodotta e conseguentemente venduta a un prezzo contenuto.

In ultimo, ma non meno importante, l’aspetto sociale: da sottolineare è infatti il desiderio di andare ad utilizzare consumabili che non soltanto vadano a biodegradarsi ma che siano anche trasparenti. Un graduale ritorno alla normalità, in cui l’interazione tra le persone potrà riprendere ad essere accompagnata anche dai volti.

Prossimi step sono l’esecuzione di test ulteriori per andare ad apportare le dovute modifiche, ma tra i desideri per il futuro vi è l’avviamento della produzione a Goa in India, Paese natale dell’Ingegnere Chris Gurjao, laureato all’Università di Bologna e ideatore di SeeBreathe.

Ponti stampati in 3D: da Amsterdam a Shangai, nuove frontiere dell’architettura

Abbiamo più volte trattato il tema della stampa 3D e delle sue molteplici applicazioni: ricordiamo tra queste il settore medico, della moda, e molti altri tra cui gli interessanti utilizzi in architettura. 

Più recenti le realizzazioni di cui parleremo oggi.

Tutto europeo è il ponte in acciaio inossidabile presentato ad Amsterdam. Con un peso di 4.500kg è stato stampato interamente in 3D mediante l’utilizzo di robot.

Il Progetto, che ha preso avvio nel 2015 e si è concluso qualche settimana fa, ha visto il coinvolgimento tra gli altri di Joris Laarman Lab per la fase di progettazione, ArcelorMittal, Autodesk per la produzione digitale, Heijmans, Lenovo per la sensoristica computazionale, ABB Robotics, Air Liquide, Oerlikon, MX3D e l’Imperial College di Londra.

Esposto nel 2018 alla Design week di Eindhoven, è stato ora posizionato sul canale di Oudezijds Achterburgwal.

Il ponte integra anche una componente sensoristica che gli consente di monitorare il traffico cittadino e gli effetti delle vibrazioni; i dati raccolti saranno poi analizzati da un team di ricercatori che mediante processi di apprendimento automatico andranno a proporre eventuali interventi di modifica o ad elaborare un modello per la realizzazione di strutture ancor più grandi, oltre che ad evidenziare lo stato di salute del ponte.

Decisamente meno vicino a noi è invece il ponte retrattile presentato a Shangai. Anch’esso stampato in 3D, è azionabile via Bluetooth e realizzabile in soltanto 3 giorni. Con una struttura composta da 36 pannelli triangolari realizzati con un materiale in poliestere carbonato, ognuno con un design diverso, e diviso in 9 segmenti, ci ricorda un po’ il Kinematics Cloth di cui parlammo tempo fa.

Questa ingegnosa opera si trova nel Wisdom bay Innovation Park, il Parco scientifico tecnologico della città, è attivabile a distanza ed è in grado di “srotolarsi” in meno di un minuto, sino a raggiungere una lunghezza di 9 metri.

Attraversabile solo da pedoni, è dotato anche di un sistema di allarme in grado di valutarne un eventuale sovraccarico.

Produrre seta sostenibile, imparando dai ragni

Spintex Engineering Ltd. è una spin-out dell’Università di Oxford, vincitrice – tra gli altri – dell’edizione 2021 del premio Ray of Hope, il quale celebra soluzioni innovative rigorosamente ispirate dalla biomimetica, ovvero il trasferimento dei meccanismi che governano la Natura al mondo artificiale attraverso la mimesi.

Come hanno ottenuto la vittoria? Grazie alla messa a punto di un processo di lavorazione della seta, molto più sostenibile e facilmente scalabile all’interno del settore produttivo di riferimento. Tutto questo è stato possibile grazie ad un’attenta comprensione scientifica di come i ragni producono e filano la propria tela: l’imitazione di questa tecnica di filatura in laboratorio ha portato allo sviluppo di un processo molto più ecologico di quello tradizionalmente adottato. 

La seta è incredibilmente energivora soprattutto in termini di consumo d’acqua e di anidride carbonica prodotta, il che le conferisce un impatto ambientale tra i materiali di moda seconda solo alla pelle. Oltre il 50% dell’impatto totale risiede nella lavorazione dei bozzoli, la quale avviene grazie all’ebollizione di migliaia di litri d’acqua con alcali e sostanze chimiche, capaci di dipanare le fibre di seta. Da qui l’esigenza di trovare nuovi processi per la sua lavorazione.

I ragni invece, combinando solo acqua e proteine, creano una soluzione di “seta liquida” che può essere trasformata in fibre ad altissime prestazioni, auto assemblanti, il tutto a temperatura ambiente.

Spintex ha così “catturato il segreto della tela di ragno”, mettendo a punto un gel proteico liquido che permette la filatura della seta usando come sottoprodotto esclusivamente l’acqua, in una precisa combinazione di pressione e bassa temperatura. Non solo fibre sostenibili, ma anche dalle proprietà regolabili grazie al contributo dell’ingegneria di precisone.

La proprietà intellettuale di Spintex non risiede però solo nella composizione del mix proteico del gel sopracitato, ma anche nel design dei filatoi, progettati per essere abbinati ai macchinari già disponibili in commercio e quindi già posseduti anche dalle aziende. Altro punto di forza della società è la semplicità del processo di filatura, rispetto ai complessi processi di modificazione genetica presentati dai loro principali concorrenti. 

L’ingresso sul mercato della seta Spintex è previsto per il 2022: inizialmente la società punta a trovare applicazione nel mondo dei prodotti medicali tessili avanzati e nel settore della medicina rigenerativa, un mercato che dovrebbe raggiungere i 20,2 miliardi di dollari entro l’anno prossimo. 

L’alveare hi-tech per la biodiversità

Abbiamo più volte parlato di come l’Agricoltura 4.0 consenta di ridurre gli sprechi, di ottimizzare la produzione, di registrare elevati livelli di sostenibilità. La tecnologia di cui tratteremo oggi afferisce al settore dell’apicoltura, ma può essere esportabile ad altri comparti, sia dell’allevamento che dell’agricoltura.

Nata nel 2017 dall’incontro tra un biologo e un ingegnere elettronico, sta registrando grande successo. Niccolò Calandri e Riccardo Balzaretti sono i fondatori della startup che è riuscita ad introdurre il 4.0 nel mondo dell’apicoltura anche grazie all’aggiudicazione del bando SME Instruments Fase 2 di Horizon 2020 dedicato alle piccole e medie imprese.

L’inserimento lavorativo di nuove risorse e continui investimenti in ricerca e sviluppo hanno consentito in un anno complesso quale il 2020 caratterizzato per molti da chiusure, di andare addirittura ad incrementare i propri ricavi (+640%), espandere la propria rete fino anche a rispondere alla sfida dell’internazionalizzazione con ordini da spedire in Finlandia, Cina, Australia, ecc.

3Bee promuove l’importanza delle api e la tutela della biodiversità con l’utilizzo della tecnologia: Hive-Tech, ora nella versione Pro V.2 ne è il prodotto di punta. Un dispositivo IoT, basato su rete GSM in grado di raccogliere dati su umidità, temperatura, suoni, vibrazioni e peso: impermeabile, con sensori biomimetici da posizionare all’interno dell’arnia, alimentati ad energia solare, un display LED, un’antenna GSM e un’antenna GPS, consente di ottimizzare il lavoro dell’apicoltore riducendo lo stress delle api.

I dati raccolti vengono inviati mediante 2G (presto 4G) in cloud e risultano poi di facile consultazione e lettura grazie alla 3Bee app che consente di monitorare le informazioni da remoto, gestire i propri alveari, decidere se e dove spostarli individuando aree più redditizie, visualizzare dati su peso, temperatura, umidità, suoni, previsioni meteo, pianificazione delle attività a calendario, ricezione di notifiche di aggiornamento e/o allarme ecc.

Attualmente le api sono l’anello fondamentale della catena alimentare. L’impollinazione avviene principalmente grazie all’ape mellifera e alle api selvatiche, tuttavia entrambe le specie stanno scomparendo, portando danni economici tangibili, non soltanto alla produzione di miele, ma soprattutto alla resa delle coltivazioni, dalle mele del Trentino fino agli aranceti della Sicilia. La nostra campagna mira non solo a migliorare la tracciabilità, la qualità e la produzione del miele, ma guarda oltre a un potenziamento dell’impollinazione per l’intera catena

sostengono Calandri e Balzaretti. Ora è in corso di sviluppo l’integrazione della tecnologia blockchain per la filiera agroalimentare che renderebbe il modello esportabile al settore delle galline ovaiole, dell’allevamento da carne, da latte e al settore agricolo.

Grazie a Regione Lombardia e INSTM nasce SUNSPACE

Oggetto del Progetto BASALTO, Nuovi materiali BAsati Su Alginati per la rimozione del particolaTO aerodisperso, si chiama SUNSPACE ed è un materiale innovativo, ecologico, riciclabile ed anche economico.

Realizzato in collaborazione tra l’Università degli Studi di Brescia, di Trieste e di Bologna, è stato finanziato da INSTM, ovvero il Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza che riunisce 49 atenei, e Regione Lombardia, ed ha già ricevuto più d’un riconoscimento. L’ultimo (non certo per importanza) l’Energy Globe Award 2021 dove seppur non come vincitore è andato a collocarsi tra i finalisti per la categoria Air.

SUNSPACE deve la sua scoperta all’Horizon Prize – Materials for Clean Air cui il Progetto BASALTO ha cercato di dare risposta. Coordinatrice del team di ricerca è la Professoressa Elza Bontempi del Laboratorio di Chimica per le Tecnologie dell’Università di Brescia, ricercatrice su eco-materiali derivanti da rifiuti. Insieme a lei, il Professor Tiziano Montini dell’Università degli Studi di Trieste e il Professor Ivano Vassura dell’Università degli Studi di Bologna.

Abbiamo preso ad esempio la capacità delle foglie di assorbire il particolato atmosferico, quindi abbiamo sperimentato diverse tipologie di paste, ovvero di materiali che consentono di ottenere impasti morbidi, non tossici, sostenibili e modellabili ottenuti mescolando con acqua gli alginati di sodio (derivati dalle alghe) e altri materiali comuni a basso costo

spiega la Coordinatrice del team di ricerca. L’idea era dunque quella di andare a definire composizione e struttura di un eco-materiale in grado di assorbire e quindi ridurre le polveri sottili, particelle inquinanti tanto sottili e di dimensioni così ridotte da rimanere nell’atmosfera (e finire dunque nei nostri polmoni) sino all’arrivo di una pioggia.

A Brescia si è deciso di procedere testando l’utilizzo delle ceneri pesanti, scarto del processo di termovalorizzazione, in ottica di economia circolare. Per rendere poi porosa la superficie del materiale si è deciso di andare ad aggiungere il bicarbonato di sodio, tanto elementare quanto economico, in grado di andare a formare delle “bolle” di varie dimensioni sul materiale composito.

E proprio grazie a queste bolle, le prime sperimentazioni hanno dimostrato che il materiale poroso è in grado di assorbire 24g/mq di particolato fine: un successo notevole se si pensa che è addirittura maggiore di quello ottenuto dalle foglie!

Ma non è ancora finita: mentre grazie all’interessamento della London School of Architecture si sta cercando di dare al materiale differenti colorazioni mediante l’introduzione di additivi naturali, è attualmente in fase di studio la possibilità di rendere SUNSPACE meccanicamente più resistente grazie alla collaborazione con ITALCEMENTI.

Per il momento modellarlo non è semplice, proprio perché ha caratteristiche diverse da quelle di un materiale classico e la sua porosità, frutto dell’utilizzo del bicarbonato di sodio, non ha una struttura sempre ripetibile, che dipende anche da quanta acqua viene utilizzata.

Elza Bontempi, Università degli Studi di Brescia

 

Un materiale dai promettenti utilizzi in architettura e bio-edilizia, soprattutto considerando che si presenta simile ad un intonaco che può essere poi ripulito e, quindi, rigenerato una volta lavato (con la pioggia).

Non tutto rose e fiori però. Purtroppo, seppur da un lato SUNSPACE vanta il riconoscimento di materiale derivante da economia circolare e quindi di materiale prodotto mediante il riutilizzo degli scarti industriali, dall’altro lato è da evidenziare come ancora manca una normazione per l’utilizzo di tali materiali considerati rifiuti. Un vuoto normativo che ci si auspica venga presto colmato, anche per la rilevanza del tema all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

 

Per approfondire:
Zanoletti, A., Bilo, F., Borgese, L., Depero, E. L., Fahimi, A., Ponti, J., Valsesia, A., La Spina, R., Montini, T., Bontempi, E. (2018) SUNSPACE, A Porous Material to Reduce Air Particulate Matter (PM), Frontiers in Chemistry, Vol. 6, pp.534, https://doi.org/10.3389/fchem.2018.00534

Sensori indossabili? Grazie al kirigami, il sudore non è più un problema!

Nell’ultimo anno, ci è capitato più volte di aggiornarvi sui progressi relativi allo sviluppo di tatuaggi e cerotti indossabili, rientranti nella categoria wearable technologies (in healthcare). Ricerche e sperimentazioni vanno sempre più verso un’ottica di monitoraggio costante ed affidabile, puntando tutto su una raccolta di informazioni il più possibile autonoma, e su un medio – lungo periodo.

Dalla Corea del Sud, e più nel dettaglio dal lavoro di ingegneri e ricercatori del MIT, è arrivata la soluzione ad uno dei grossi limiti riscontrati nei dispositivi in via di sviluppo: la poca resistenza al sudore umano. Non solo danni ai sensori incorporati, ma anche irritazioni cutanee e problemi di aderenza alla pelle con conseguente impatto sulla bontà dei dati raccolti: tutte problematiche riconducibili all’inevitabile presenza dei pori. 

Da qui, la ricerca di una seconda pelle elettronica munita anche di specifici percorsi permeabili per il sudore. La soluzione è arrivata studiando la pelle, ma non solo. Analizzando dimensione e distribuzione dei pori, il team di lavoro ha ipotizzato una schema di fori da incidere sui dispositivi, senza però minare flessibilità delle pellicole e resistenza dei sensori. L’ispirazione è poi successivamente stata trovata grazie al kirigami, una tecnica orientale di intaglio e piegatura della carta.

Come creare quindi una texture forata e traspirante, ma allo stesso tempo deformabile e resistente? Collegando tra loro i suddetti fori. 

📸: Felice Frankel – Particolare dei microscopici condotti sudoripari artificiali

Seguendo queste considerazioni, il team ha fabbricato una e-skin composta da più strati funzionali, ciascuno dei quali inciso con microscopici pori sagomati e collegati fra loro. I sensori inseriti – idonei al monitoraggio di temperatura, idratazione, esposizione ai raggi UV…  – sono racchiusi tra due sottili pellicole protettive, ricoperte da un adesivo polimerico appiccicoso che ne permetterà poi una perfetta aderenza. Durante i vari test sperimentali, la raccolta dati è stata effettuata durante attività che inducono il sudore, come la corsa su tapis roulant o durante la consumazioni di pasti particolarmente piccanti. Assolutamente verificati i vantaggi legati all’introduzione di queste “vie sudoripare artificiali”. 

L’unico fattore che potrebbe ancora danneggiare questa pelle tecnologica, in un’ottica di lunga permanenza sulla cute – qualche mese almeno – potrebbe essere legata al contatto frequente con l’acqua o a situazioni di attrito particolarmente stressanti, dato l’impercettibile spessore del dispositivo.