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Fare un Elettrocardiogramma con la Realtà Virtuale?

Abbiamo evidenziato in un precedente articolo quanto possa essere utile la Realtà Virtuale ai fini dell’espletamento di attività formativa. La cosiddetta “esperienza sul campo” in ambienti rischiosi può essere infatti realizzata virtualmente. Nello specifico, avevamo parlato di come un visore in grado di simulare un evento rischioso come ad esempio un incendio, potesse essere un nuovo modo per fare formazione sulla sicurezza sul lavoro, più efficace ed interattiva.

Sempre più diffuso ora anche l’utilizzo dei visori di Realtà Virtuale in medicina. Già da qualche anno se ne annoverano le potenzialità, utilizzati per la riabilitazione, per alleviare dolore e paura: immergere il paziente in un ambiente favorevole, rilassato, positivo, aiuta a distendere i nervi, ridurre lo stress, rendere l’esperienza medica meno traumatica nei bambini, ma anche alleviare il dolore. Un esempio è TOMMI, un progetto realizzato da Softcare Studios, una startup italiana che si occupa di sanità digitale. Tommi è un’esperienza di gioco in realtà virtuale per i pazienti pediatrici, finalizzata alla riduzione di ansia e dolore durante trattamenti medici invasivi o comunque non facili da sopportare per un bambino.

Realizzato sempre in collaborazione con Softcare Studios, lo studio di cui parliamo oggi, è da attribuire però ad un team di ricercatori del Politecnico di Milano e, più precisamente, al Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria (Take Care Lab) guidato dal Professor Enrico Caiani. Insieme, hanno dimostrato come i visori di VR possano diventare strumenti utili per il monitoraggio di alcuni parametri nei pazienti, e, nello specifico, come sia possibile utilizzare i sensori contenuti nel visore (accelerometri e giroscopi) per poter misurare la frequenza cardiaca e respiratoria, senza l’utilizzo di ulteriori dispositivi indossabili o periferiche.

La ricerca, pubblicata su Sensor (rivista open source), dimostra l’acquisizione di dati di trenta volontari sani e a riposo, che indossavano un visore che stava proiettando immagini neutre, in diverse posture (seduto, in piedi e sdraiato).

Come è possibile? Stando a quanto emerso, il visore sarebbe in grado di rilevare battito e frequenza respiratoria misurando micro-movimenti della testa, non visibili ad occhio nudo e generati ad ogni battito cardiaco. A condizione di mantenere la testa ferma, sono stati raggiunti interessanti risultati, differenziati sulla base della posizione assunta dal paziente ed anche dal tempo di registrazione (30 secondi o 50 secondi). Migliori risultati per la stima della frequenza respiratoria da sdraiato, mentre per la stima della frequenza cardiaca l’affidabilità sale se il paziente è seduto.

Il progetto, ha così posto le basi per aprire a nuove opportunità di impiego della realtà virtuale, per la misurazione di parametri aggiuntivi, o anche misurare la reazione a stimoli differenti indotti andando a modificare just in time l’esperienza virtuale.

Per Approfondire:

Floris, C., Solbiati, S., Landreani, F., Damato, G., Lenzi, B., Megale, V., Caiani, E.G. (2020) Feasibility of Heart Rate and Respiratory Rate Estimation by Inertial Sensors Embedded in a Virtual Reality Headset, Sensors 2020, 20, 7168, https://doi.org/10.3390/s20247168

Bioplastic Skin: del maiale (e non solo) non si butta via niente

Si sente sempre più parlare della diffusione della plastica così come della realizzazione di prodotti ad essa alternativi. Dai contenitori a base di bamboo alle fibre ricavate da latte, ananas o funghi: sono svariati i materiali naturali e organici di cui si sperimenta l’uso. Tra di essi va annoverato Bioplastic Skin, il packaging per carne derivato dagli scarti dell’animale stesso.

L’imballaggio è stato ideato da Valdís Steinarsdóttir, designer islandese fortemente interessata al tema ambientale e specializzata nella creazione di oggetti prodotti da materiale organico di riciclo.

Questa bioplastica per alimenti, derivata dalle pelli degli animali, è totalmente biodegradabile. Dagli scarti messi in ebollizione vengono ricavati gelatina e collagene, sostanze da cui è possibile trarre una sostanza viscosa e modellabile.

Il progetto ha molteplici scopi. In primo luogo quello di generare un materiale facilmente decomponibile alternativo alla plastica: Bioplastic Skin si dissolve in acqua calda e viene biodegradato in poche settimane.

Ulteriore finalità è l’impiego di un sottoprodotto dello scarto delle carni stesse, scelta che non solo si contraddistingue per sostenibilità, ma permette anche di sfruttare pienamente ogni componente dell’animale macellato ottimizzandone le parti senza sprechi.

Con le sue opere la designer islandese punta anche a far riflettere sul consumo di carne, in particolare sull’entità degli sprechi generati dalla relativa industria di lavorazione. Stessa filosofia ha infatti anche il progetto Just Bones, con cui Valdís Steinarsdóttir realizza vasi e contenitori biodegradabili partendo dalle ossa di animali macinate in polvere.

Dalle vespe vasaie, l’idea del villaggio 3D in terra cruda

La terra cruda è un materiale antico, utilizzato in architettura sin dalla storia dell’umanità. Composto da argilla e inerti naturali, altro non è che terra impastata con acqua, lasciata essiccare all’aria sotto forma di mattoni, massetti e riempimenti, senza alcun bisogno di cottura o trattamenti particolari.

E proprio da questo materiale, prende origine TECLA: Technology and Clay, ovvero tecnologia ed argilla. Come unire i due concetti in un’unica invenzione? Con la stampa 3D.

Abbiamo già visto in precedenti articoli quante sempre più applicazioni si possono annoverare quando si parla di stampa 3D. Quella di cui parleremo oggi afferisce alla bio-edilizia. TECLA è infatti un habitat interamente stampata 3D, realizzato con più stampanti simultaneamente operanti, che utilizzano terra cruda, massimizzandone le prestazioni. Totalmente sostenibile, riciclabile, costruito con materiali a Km 0, completamente riutilizzabili, rappresenta un importante progetto di green economy.

 

 

Nato dalla collaborazione tra WASP, World’s Advanced Saving Project – azienda leader delle stampanti 3D di Massa Lombarda, e MC A (Mario Cucinella Architects), TECLA è il primo villaggio costituito da moduli abitativi indipendenti, costruito in pochi giorni.

Nel corso dell’anno passato, nasceva GAIA, la prima casa 3D in terra cruda: da qui WASP si è poi mossa per proseguire nella stessa direzione, sino a giungere alla stampa di un intero villaggio. Ispirato alle vespe vasaie, TECLA diventa così un intero habitat eco-sostenibile.

 

“Il completamento della struttura è un importante traguardo e dimostra come, grazie alla progettazione ed alle tecnologie impiegate, TECLA non sia più solo un’idea teorica ma possa costituire una risposta, reale e realizzabile, ai bisogni dell’abitare di oggi e del futuro, che può essere declinata in diversi contesti e latitudini”

Mario Cucinella, MC A e School of Sustainability (SOS)

 

Già dal 2012 WASP trae ispirazione, come accennato, dalle vespe vasaie per lo sviluppo di processi di costruzione basati sull’economia circolare e la fabbricazione digitale: dalla prossima primavera 2021 sarà disponibile sul mercato Crane WASP, il primo sistema multi-stampante in grado di realizzare abitazioni stampate 3D in pochissimo tempo e con altissimi livelli di sostenibilità. Risparmio di risorse naturali, riduzione degli sprechi ma anche minimizzazione nell’impiego delle risorse umane: il processo di costruzione è ottimizzato e replicato per mezzo del Maker Economy Starter Kit, un sistema composto da molteplici stampanti e da un sistema di prelievo, miscelazione e pompaggio della materia prima, la terra.

 

 

Qualche numero, per dare un’idea dell’elevato livello di sostenibilità che TECLA può consentire: 200 ore di stampa, 7.000 codici macchina (G-cde), 350 strati da 12mm, 150 km di estrusione, 60 metri cubi di materiale, per un consumo medio inferiore a 6kW.

Ne deriva un inedito scenario architettonico che rivoluzionerà totalmente l’impatto ambientale dell’edilizia.

Il progetto TECLA ha preso avvio nel 2019; nella primavera 2021 sarà allestito e presentato al pubblico.

 

Il progetto è realizzato in partnership da WASP (ingegnerizzazione e costruzione con stampa 3D) e Mario Cucinella Architects (progettazione architettonica), con la collaborazione di SOS – School of Sustainability (research partner), Mapei (consulenza e fornitura dei materiali), Milan Ingegneria (consulenza strutturale), Capoferri (produzione ed ingegnerizzazione infissi), RiceHouse (consulenza e fornitura di bio-materiali), Frassinago (progettazione paesaggistica), Lucifero’s (progettazione illuminazione), Ariatta (consulente in materia di energia e comfort), Imola Legno (fornitura e consulenza soluzioni in legno), Primat • Terracruda® (fornitura pavimento terra cruda), Cefla (fornitura soluzioni elettriche), Studio legale Micera (assistenza Legale); con il patrocinio di Comune di Massa Lombarda; sponsorizzato da Ter Costruzioni

Innovazioni in cardiologia: il rischio di infarto si combatte con l’AI

Utilizzare l’apprendimento automatico per ottimizzare la definizione dei modelli predittivi e terapeutici per pazienti che hanno subito l’infarto. Un’innovazione tutta italiana, torinese per l’esattezza, che si attesta a rivoluzionare i reparti di cardiologia e che conferma la città piemontese, già scelta come sede dell’Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale (I3A), centro innovativo strategico.

Quello tra intelligenza artificiale e ambito sanitario è un rapporto di collaborazione sempre più fertile, destinato a maturare ulteriormente negli anni a venire. L’applicazione della tecnologia alla diagnostica si è rivelata strategica in più di una sperimentazione: abbiamo trattato in precedenti articoli dell’impiego dell’AI per lo screening del tumore al seno, così come per l’individuazione dei pazienti positivi al Covid-19 nella ricerca di EPFL e in quella del MIT.

La ricerca torinese, diretta dal professor Gaetano Maria De Ferrari, è stata coordinata dalla Cardiologia Universitaria dell’Ospedale Molinette della Città della Salute di Torino e condotta in collaborazione al Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino e al Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale del Politecnico di Torino.

Pubblicato su The Lancet, lo studio sul nuovo sistema di classificazione dei rischi futuri per i pazienti cardiopatici si basa sul machine learning. Gli algoritmi di intelligenza artificiale permettono di costruire i modelli predittivi in base alle informazioni e alle relazioni ricavate dagli ampi database in possesso.

“Lo studio è una dimostrazione fortissima delle possibilità dell’Intelligenza Artificiale in medicina e in cardiologia in particolare.” 

 Professor Gaetano Maria De Ferrari

Per ovviare ai rischi a cui incorrono i pazienti che hanno subito infarto miocardico nei primi anni dopo le cure, i medici devono prendere in considerazione diversi fattori in funzione della possibilità di peggioramento e ai trattamenti in corso. La terapia viene quindi tradizionalmente definita in funzione dell’esperienza e della consultazione di analisi statistiche di rischio, purtroppo non sempre precise.

Gli algoritmi impiegati nella ricerca hanno invece permesso l’analisi di dati clinici inerenti a un bacino di pazienti piemontesi molto più ampio del solito e di individuare tra essi relazioni fondamentali altrimenti difficilmente identificabili. Sfruttando indicazioni e possibili combinazioni sui 23.000 soggetti esaminati attraverso i supercomputer di CINECA e di HPC4AI, è stato possibile ricavare informazioni preziose utili a definire strategie terapeutiche efficienti.

Mentre i punteggi di rischio rilevati con i dati statistici tradizionali hanno una precisione del 70% e un’incidenza di errore per tre pazienti su dieci, l’impiego del machine learning ottimizza le previsioni al 90% e riduce la possibilità di diagnosi scorretta sino a un paziente su dieci. Grazie alle stime ricavate con l’impiego dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario risulta quindi possibile mettere in atto cure migliori per i pazienti di cardiologia e ottimizzare le prestazioni sanitarie.

 

Per Approfondire:
D’Ascenzo, O. De Filippo, G. Gallone, G. Mittone, M. A. Deriu, M. Iannaccone, A. Ariza-Solé, C.Liebetrau, S. Manzano-Fernàndez, Giorgio Quadri, Tim Kinnaird, G. Campo, J. P. S. Henriques, J. M. Hughes, A. Dominguez-Rodriguez, M. Aldinucci, U. Morbiducci, G. Patti, S. Raposeiras-Roubin, E. Abu-Assi, G. M. De Ferrari, PRAISE study group (2021) Machine learning-based prediction of adverse events following an acute coronary syndrome (PRAISE): a modelling study of pooled datasets, The Lancet, Volume 397, Issue 10270, pages 199-207

Per fare un Albero, ci vuole… il Laboratorio

Avevamo scritto in un precedente articolo sul legno simile al vetro, ovvero reso trasparente. Quello di cui parleremo oggi, invece, è un legno che del legno ha molto poco.

Da una ricerca del MIT infatti, il legno viene artificialmente prodotto in laboratorio: si tratta di un tessuto vegetale e sintetico. Il team di ricerca, guidato da Velásquez-García, da tempo lavorava al raggiungimento dell’obiettivo.

Tutto è partito dalla zinnia, una pianta appartenente alla famiglia delle Asteracee: estraendo dalle sue foglie alcune cellule, i ricercatori sono riusciti a dimostrare la fattibilità del far crescere da esse delle strutture lignee.

“Le cellule vegetali sono simili a quelle staminali. Possono diventare qualsiasi cosa se vengono indotte a farlo”

Luis Fernando Velásquez-García, Microsystems Technology Laboratories, MIT

 

Come? Facendo crescere le cellule delle foglie in un mezzo liquido, in modo tale da consentire loro di metabolizzare le sostanze nutrienti e proliferare. Con l’aiuto di due ormoni vegetali, ovvero l’auxina e la citochinina, è stato possibile forzare lo sviluppo in una struttura rigida simile al legno: si tratta della lignina, polimero organico che conferisce al legno compattezza. Tutti i parametri che regolano lo sviluppo e la morfologia delle cellule, comprese le concentrazioni degli ormoni, il pH medio e la densità cellulare iniziale, vengono ottimizzati e implementati. Si tratta della prima dimostrazione proof of concept di materiale vegetale isolato, simile a un tessuto in vitro ottenuto mediante coltura cellulare mediata da gel.

Niente più suolo o energia solare, niente limitazioni dovute alla stagionalità, al clima, alla disponibilità delle risorse: certamente non andremo mai a sostituire gli alberi, ma i primi risultati identificano il legno artificiale, come una promettente valida alternativa possibile nel reperimento di materie prime sostenibili.

La produzione di questo biomateriale (a differenza, peraltro, di molti biomateriali di origine vegetale, considerati non sostenibili) aiuterebbe senza dubbio a muovere nella direzione di una maggiore sostenibilità e un minor utilizzo delle risorse naturali.

 

Per approfondire:

Ashley L.Beckwith, Jeffrey T.Borenstein, Luis F.Velásquez-García (2020) Tunable plant-based materials via in vitro cell culture using a Zinnia elegans model, Journal of Cleaner Production, Volume 288
DOI https://doi.org/10.1016/j.jclepro.2020.125571

Nanospugne per purificare le acque contaminate nel rispetto dell’ambiente

Si chiama Nanobond, Nanomateriali nella bonifica e disidratazione di sedimenti marini e fluviali contaminati: è il progetto di sviluppo di nanomateriali ecocompatibili per il ripristino delle acque inquinate. Una ricerca finanziata dalla Regione Toscana attraverso il Bando di Ricerca, Sviluppo ed Innovazione POR FESR 2014-2020  e coordinata dalla professoressa Ilaria Corsi, ecologa del dipartimento di Scienze fisiche, della Terra e dell’ambiente dell’Università di Siena.

Acque Industriali srl è l’azienda capofila del progetto di ricerca Nanobond a cui hanno contribuito diversi partner privati e pubblici: Bartoli spa, Biochemie LAB srl, Ergo srl, Labromare srl, l’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale (ISPRA), l’Agenzia per lo Sviluppo Empolese Valdelsa (ASEV),  e il consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali con le Università di Siena, di Pisa, di Torino e il Politecnico di Milano.

Carta riciclata e tuberi: ecco i componenti utilizzati in questo studio che vede la proficua collaborazione di industria e ricerca. Le nanospugne vengono infatti realizzate con nanomateriali derivati dal recupero degli scarti: la cellulosa dalla carta da macero e l’amido dai rifiuti organici. Il progetto opera quindi nel totale rispetto della sostenibilità secondo i principi dell’economia circolare.

La bonifica viene messa in atto sia attraverso il filtraggio meccanico dei geotessili drenanti che con l’utilizzo concomitante delle nanospugne. Queste sono in grado di decontaminare quanto stoccato dai geotessili assorbendo sia i rifiuti organici che quelli inorganici.

La rimozione degli agenti inquinanti per azione di questi materiali nanostrutturati origina un procedimento di nanoremediation, metodo di risanamento ambientale che prevede appunto l’applicazione e l’utilizzo di nanoparticelle.

I nanomateriali atossici individuati non soltanto risolvono il problema della contaminazione dell’acqua marina e fluviale, ma sono in grado di farlo in maniera ecologica, nel totale rispetto della sicurezza ambientale.

Gli studi realizzati dal team di progetto hanno permesso inoltre l’elaborazione di linee guida regolamentative inerenti l’impiego di nanomateriali ecocompatibili nel settore del dragaggio idraulico, iniziando a colmare un vuoto legislativo nazionale ed europeo.

Per Nanobond non sarà registrato brevetto “in quanto si tratta di un progetto finanziato con fondi pubblici e deve essere quindi alla portata di tutti ai fini di avere delle nanotecnologie efficaci e sicure per il settore delle bonifiche ambientali” dichiara la professoressa Corsi.

Non esigendo l’installazione di impianti di depurazione, oltre a garantire un trattamento di risanamento ecocompatibile l’impiego delle nanospugne permetterebbe un risparmio sostanziale nelle pratiche di bonifica, vantaggio significativo in particolare per le aree idriche più ampie.

I chip fotonici potenziano l’intelligenza artificiale

Un processore fotonico che utilizza particelle di luce all’interno dei chip di silicio: lo studio innovativo condotto dagli scienziati dell’EPFL, di IBM Research di Zurigo e delle Università di Oxford, Münster, Exeter, Pittsburgh potrebbe rivelarsi cruciale per esaudire le sempre più intense esigenze di calcolo dell’era digitale.

Stare al passo con la crescita esponenziale del traffico dati può essere arduo. L’impiego sempre più massivo delle tecnologie di apprendimento automatico e intelligenza artificiale nei più svariati ambiti di applicazione esige processori dal potenziale ampio.

L’architettura ideata dal team di ricercatori offre una possibile soluzione. L’elaborazione di attività matematiche complesse e l’archiviazione contemporanea di dati avviene molto più rapidamente impiegando processori basati sulla luce. I chip elettronici convenzionali sono estremamente più lenti.

Lo studio, esito della fruttuosa collaborazione di diversi prestigiosi gruppi di ricercatori, è apparso recentemente sulla rivista Nature. Quella dell’eterogeneo team di accademici è la prima ricerca ad applicare tali tecnologie nel campo delle reti neurali artificiali.

“I processori basati sulla luce per velocizzare le attività nel campo dell’apprendimento automatico consentono di elaborare complesse attività matematiche ad alta velocità e produttività”

Professore Wolfram Pernice, Università di Münster

Le reti neurali alla base delle applicazioni AI, algoritmi che simulano il cervello umano, operano attraverso moltiplicazioni matrice-vettore. I ricercatori hanno implementato un acceleratore hardware per eseguire tali moltiplicazioni su più set in parallelo. Un risultato ottenuto facendo riferimento a un’altra tecnologia innovativa dell’EPFL: un pettine di frequenza basato su chip come fonte di luce.

Il pettine di frequenza fornisce una varietà di lunghezze d’onda ottiche elaborabili indipendentemente l’una dall’altra all’interno dello stesso chip fotonico. Ciò permette di analizzare discrete mole di dati in parallelo sfruttando il multiplexing, calcolo simultaneo sulle lunghezze d’onda.

I chip fotonici sono stati realizzati con materiali a cambiamento di fase, del tipo solitamente impiegato nell’elaborazione di immagini e dati audio. Successivamente sono stati testati su una rete neurale progettata per riconoscere numeri scritti a mano.

La velocità dei processori fotonici rispetto ai chip convenzionali basati sul trasferimento elettronico garantirebbe una serie di vantaggi in un ampio ventaglio di applicazioni. Maggiore portata di elaborazione simultanea degli algoritmi di intelligenza artificiale, analisi di una mole più ampia di dati clinici, ottimizzazione delle performance per i sensori dei veicoli a guida autonoma: reti neurali più grandi e capacità di calcolo potenziata permettono valutazioni più accurate.

 

Fonte:
J. Feldmann, N. Youngblood, M. Karpov, H. Gehring, X. Li, M. Stappers, M. Le Gallo, X. Fu, A. Lukashchuk, A.S. Raja, J. Liu, C.D. Wright, A. Sebastian, T.J. Kippenberg, W.H.P. Pernice, H. Bhaskaran (2021) Parallel convolutional processing using an integrated photonic tensor core, Nature 589, pages 52–58 
Lo studio è stato finanziato da EPSRC, Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG), European Research Council, European Union’s Horizon 2020 Research and Innovation Programme (Fun-COMP), Studienstiftung des deutschen Volkes.

Industria 4.0 in Agricoltura

Argomento della settimana, riconducibile ad un precedente articolo in cui parlammo di quanto sempre crescente sia la domanda di Industria 4.0 nel mondo agricolo è, appunto, l’Agricoltura hi-tech: con un valore di 450 milioni di euro registrava nel 2019 un incremento pari al 22% sul 2018.

Questo dato fornito dall’Osservatorio Smart Agrifood del Politecnico di Milano dal titolo “Il digitale è servito: Dal campo allo scaffale, la filiera agroalimentare è sempre più smart” identificava come trainante il desiderio di rendere più sostenibili le proprie coltivazioni da un punto di vista ambientale, ma anche economico e sociale.

Tra le tecnologie utilizzate, risultava residuale (stando ai dati dell’Osservatorio del Politecnico) l’utilizzo di droni per le attività sul campo (pari al 5% delle tecnologie utilizzate dalle imprese agricole intervistate).

“Un potenziale decisamente non sfruttato, che ancora non gode della diffusione che meriterebbe e che potrebbe crescere intensamente se si fosse a conoscenza della moltitudine di possibilità che questa tecnologia è in grado di offrire.”

 

Queste le parole di Paolo Marras, General Manager di Aermatica3D. L’azienda, eccellenza comasca con sede a Colverde, è leader nello sviluppo di integrazioni tra droni e sensori ai fini della realizzazione di droni professionali per applicazioni industriali e di ricerca e soccorso.

Il loro utilizzo in agricoltura consente da un lato di configurarsi come scelta economica e sostenibile, e dall’altro lato di dimostrarsi estremamente efficaci per il supporto all’identificazione di eventuali malattie delle colture ed anche alla conseguente lotta biologica a tali malattie delle colture o a insetti dannosi.

Tra le attività possibili si annoverano la distribuzione di liquidi, di granulati, di polveri e di capsule ideale per tutti i tipi di scenario. Maggior potenziale ovviamente per quegli scenari caratterizzati da una conformazione e delle condizioni del terreno che rendono complessi trattamenti meccanizzati o manuali. Tutti questi compiti, per mezzo dell’utilizzo dei droni, possono essere svolti con molta semplicità e un altissimo livello di precisione.

Non trascurabile, la possibilità di effettuare rilievi multispettrali, termici e mappature: mediante sensori ottici integrati, i droni sono infatti utili per acquisire dati e generare mappe in grado di evidenziare per esempio stress idrici e scarsa fertilizzazione, per poter poi conseguentemente effettuare trattamenti differenziati.

Robot e intelligenza artificiale nella serra verticale ideata da Plenty

L’agricoltura è sempre più hi-tech. Abbiamo già trattato il tema in passato, constatando come il ruolo delle tecnologie 4.0 – tra robot, droni, nanosensori – sia sempre più rilevante anche in relazione alle colture agricole.

Anche per la californiana Plenty il futuro dell’agricoltura passa attraverso l’impiego di strumenti innovati. Il progetto sviluppato dalla startup di San Francisco prevede infatti l’utilizzo di robot e intelligenza artificiale per la gestione di una fattoria verticale indoor.

I vantaggi annoverabili? In primo luogo il tipo di coltivazione messo in atto permette di consumare fino al 95% di acqua al 99% di terreno in meno. La prospettiva di risparmiare due risorse fondamentali della cui possibile carenza futura si parla da tempo è oggi più che mai focale.

Le serre di Plenty permettono di coltivare in 2 acri verticali un quantitativo di frutta e verdura per cui sarebbero necessari 720 acri di terreno tradizionale. A parità di suolo, la produttività della fattoria verticale si attesta come 400 volte superiore.

La coltivazione indoor permette inoltre di rendere disponibili svariate tipologie di prodotti in qualsiasi parte del mondo a prescindere dalle stagioni perché le tecnologie impiegate garantiscono la crescita delle piante ovunque e per tutto l’anno.

Una peculiarità che rende tangibile un ulteriore vantaggio: la produzione locale implica anche la riduzione delle emissioni di CO2 generate dal trasporto di merci provenienti da terreni agricoli esteri.

Nella fattoria Plenty le piante, mosse grazie all’impiego dei robot, crescono in file appese verticalmente al soffitto. La luce solare è sostituita da impianti LED presenti in ogni direzione, mentre tutte le variabili di acqua, temperatura e luce vengono gestite e ottimizzate con l’intelligenza artificiale. L’energia è rinnovabile e l’acqua persa per evaporazione è riutilizzata.

La realtà co-fondata da Nate Storey si contraddistingue quindi tanto per innovazione quanto per sostenibilità. Dalle colture sono anche esclusi OGM, erbicidi e pesticidi e tra le finalità aziendale vi è sì il raggiungimento di una produzione ottimale, ma nel rispetto della qualità alimentare.

Per Plenty, che ha all’attivo una fattoria verticale a San Francisco e una in costruzione a Compton, è prevista un’ulteriore espansione: la startup ha infatti ottenuto finanziamenti per 400 milioni di dollari da investitori quali Eric Schmidt e Jeff Bezos e ha siglato un accordo con i negozi californiani Albertsons per la fornitura di prodotti freschi.

Stampa 3D per interventi senza imprevisti

Abbiamo più volte trattato il tema della stampa 3D e le sue enormi potenzialità in ogni ambito. Dai più creativi, con la realizzazione di gioielli, borse e addirittura di vestiti, ai micro-robot o, ancora, la produzione made in Politecnico di Milano delle barche interamente stampate 3D.

Non trascurabile e dai promettenti sviluppi si afferma sempre più spesso l’applicazione afferente all’ambito medico.

Il progetto di cui trattiamo oggi, nasce più nello specifico dall’esigenza del medico di andare ad affrontare interventi talvolta molto complessi. Le analisi e lo studio del caso clinico, basato esclusivamente su immagini TAC offrono molto spesso soltanto una visione limitata, in 2D.

Con questa principale finalità è nata una stretta collaborazione tra il Medico Chirurgo Michele Di Cosola, specialista in chirurgia maxillo-facciale e odontoiatria presso l’Università di Foggia, con l’azienda Crea3D di Ruvo di Puglia e più precisamente con CreaMed ovvero la sezione della stessa dedicata al settore medicale.

 

«Ho scelto di utilizzare la metodica 3D per costruire un modello virtuale che riportasse in scala 1:1 la naturale anatomia del paziente. »

 

Con queste parole, Di Cosola, evidenzia quanto indispensabile sia stata la stampa 3D per poter procedere all’intervento senza imprevisti di sorta, con piena consapevolezza di quel che poteva lui presentarsi una volta avviata l’operazione.

Ma come è stato possibile realizzare una così accurata fotografia 3D?

CreaMed dispone di un software proprietario in grado di ricostruire le immagini bidimensionali di una TAC, trasformandole in un modello a tre dimensioni ad altissima precisione. Un’accuratezza mantenuta anche nella fase successiva, quella della realizzazione della stampa vera e propria. Nel procedere, si è optato per l’utilizzo di una tecnologia di stampa a resina (DLP) già utilizzata per i modelli dentali e in grado di garantire precisione al centesimo.

 

 

Il Medico ha così potuto studiare il modello molto dettagliatamente, utilizzandolo a supporto della programmazione della situazione d’intervento: un intervento (realizzato presso Villa Pompea, struttura d’eccellenza per la medicina e l’odontoiatria) con più probabilità di successo, grazie alla riduzione degli imprevisti e la maggiore probabilità di risoluzione del problema che ha dato origine all’esigenza iniziale, senza correre il rischio di crearne ulteriori e migliorando tutte le fasi pre operatorie e post operatorie.

CreaMed, come accennato, è la sezione medicale dell’azienda Crea3D, operante in territorio pugliese: partendo dall’automotive, passando dall’aerospazio, ha più recentemente aperto all’ambito sanitario.

E il successo di questo progetto fa ben sperare a ulteriori interessanti sviluppi.

Attualmente CreaMed (specializzata in Digitalizzazione e Additive Manufacturing in ambito medico) accompagna i professionisti del settore con servizi di consulenza, ricerca e sviluppo e formazione, rivolgendosi in particolar modo all’ambito dentale, ortopedico, di pianificazione chirurgica.